
Andrea Pazienza e il Fosso della Resina
I miei nonni paterni abitavano in una casa costruita da mio nonno che nel retro aveva un grande orto e alla fine dell’orto c’era quello che io vedevo come un fiume, un torrente in realtà, chiamato dagli autoctoni il Fosso della Resina.
Di racconti legati al fosso di cui potrei parlarvi ce ne sono tantissimi: le lenzuola lavate sui grandi ciottoli da mia nonna, mio padre che da bambino scappava per le rive infangandosi il vestitino buono per sfuggire alla colonia estiva, i bagni che faceva con gli amici lanciandosi da una corda appesa a qualche ramo, i vari fantasmi che popolano quasi tutte le campagne, i cinghiali che bevevano tranquilli e che hanno terrorizzato mia sorella e una sua amica…però qualsiasi cosa io possa dirvi del fosso della Resina non sarà mai bella come questa, scritta da Stefano Benni per Andrea Pazienza.
Eh già! Negli anni ’80, mentre a valle io bambina venivo accompagnata da mia nonna Linda a giocare lungo il torrente, più su Benni e Paz se ne andavano alla ricerca di carpe, in una delle loro pause dai corsi della Libera Università di Alcatraz di Jacopo Fo, a pochi km dalla sorgente del Resina.
Paz e la carpa Nan Ch’ai di S. Benni
“Il torrente Resina fila giù dritto e baldanzoso consumando una immensa roccia preistorica che sta dentro un bosco sulle montagne dell’Umbria. In quei tempi era uno dei meno inquinati del paese, e infatti vi si potevano incontrare esemplari di gambero fluviale, di granchio fiumarolo e di Andrea Pazienza, tutti animali che, come sapete, vivono solo in acque pulite.
Risalivamo controcorrente, io e Paz, verso due grandi cascate (quasi due metri di altezza!) che formavano le pozze dove si favoleggiava vivesse la carpa Nan Ch’ai. La nostra dotazione era:
Lo scrivente:
Un coltello svizzero a sette lame.
Stivali da pesca.
La guida Vademecum per le acque interne dell’Umbria, V dipartimento, assessorato cultura e tempo libero, contenente le norme generali e transitorie su periodi, misure e attrezzi consentiti per la cattura della carpa Nan Ch’ai.
Un carpometro (righello misuracarpa) da zero a 45 cm.
Una rete del tipo «bilancino» o a «stecca d’ombrello» di metri due per due (attrezzo non consentito).
Una scatola di granturco da pastura «rapid fish».
Una modica quantità.
Una borraccia d’acqua frizzante.
Paz:
Un coltello sardo pattadese scannabuoi.
Stivali da motocross.
Una macchina fotografica bulgara non funzionante.
Uno shuriken (attrezzo vietato).
Un guadino (retina da pesca con lungo manico), attrezzo consentito, ma bucato in tre punti.
Un panino del tipo «ciabatta» con mortadella.
Wafer Loacker.
Una modica quantità.
Una lattina di Coca-Cola.
Un tubetto di unghento contro le scottature (si era bruciato una gamba col tubo di scappamento della moto, previo volo giù da un tornante).
Paz (procedendo a grandi balzi di sasso in sasso, davanti allo scrivente): – La carpa Nan Ch’ai è la preda più ambita che un pescatore possa desiderare. Gli antichi testi sacri parlano chiaro…
Lo scrivente (arrancando dietro, con la rete che gli si impiglia nei rami degli alberi): – Ma sei sicuro che si trovi nel Resina?
Paz: – Gli antichi testi dicono: là dove il torrente si placa un attimo, tra la porta del pavone di Bhuodang e il bivio per Santa Cristina, dove non è né Nord né Sud, dove gli uomini aspirano ancora a essere liberi e dove c’è un incredibile numero di ranocchie…
Era sempre più caldo, e la risalita del fiume sempre più difficile. Le zanzare ci attaccavano. I climi più caldi allevano le zanne più feroci (Melville). Con quel caldo neanche un’anima (Flaubert). Il torrente erano tante cabine telefoniche una vicina all’altra (Brautigan). Siamo soli e siamo morti (Miller).
Sosta: Paz, sdraiato su una roccia di forma divanica, mangia il panino alla mortadella e con un bacchettino affresca il fango. E dice:
– I colori che ci sono qui (acqua-alberi-sole-riflessi) sono difficilissimi da rendere perché sono pieni di luce, fatti di luce, come il bosco di Rashomon, ricordi?
Ma io sono capace di rifarli uguali sulla pagina; io e chi altri al mondo?
Lo scrivente: – Nessuno, maestro.
Paz: – E la carpa Nan Ch’ai è di un colore, anzi di colori così rari e meravigliosi che il pittore cinsese Wu Lien, vedutala, la disegnò, ma ne rimase così sconvolto che pochi giorni dopo morì…
Scrivente: – E se ci succedesse lo stesso?
Paz: – Impossibile. Abbiamo un vantaggio su Wu Lien.
Scrivente: – E cioè?
Paz: – Occhiali ray-ban.
Detto ciò, Paz indossò gli occhiali scuri e con quattro zampate vigorose riprese il cammino, alzando spruzzi d’acqua, mettendo in fuga raganelle e idrometre, agile e sicuro benché infastidito da una gang di vespe interessatissima al suo odore di balsamo antiscottatura.
E mentre la luce diventava dorata e malinconica, giungemmo alla cascata, quella detta del Povero Cavallo, perché una volta un cavallo, traversandola, si era fottuto un posteriore (fatto di cui ancora porta segno).
– Non qui, – dissi io, – alla seconda pozza, quella dei Granchi Batteristi.
Qua una volta avevamo incontrato due granchi che, ci crediate o no, battevano le chele in tempo perfetto accompagnando la nostra radiolina che suonava Satisfaction.
– Ci siamo, – disse Paz soffiando una modica boccata, – adesso è tutto molto semplice. Io la spingo col mio retino verso la tua rete e tu la prendi.
– No, – dissi io, – io con la mia rete la spingo verso il tuo retino e tu la prendi.
– Facciamo così, – disse Paz, – stiamo sdraiati qui all’ombra finché quella fetente non viene fuori.
Così fu.
La pozza era verde, immobile e misteriosa.
Paz parlava del Beato Angelico, e di come si potevano saltare otto sedie con un balzo solo, bastava crederci e respirare bene. Io gli raccontai la storia del maestro Shaolin Weng Shin e dei dodici discepoli codardi. All’improvviso, udimmo uno strano rumore. Una vibrazione, come un piccolo battito d’ali sotto l’acqua.
Velocissimo Paz estrasse un bloc notes e una scatola di pastelli.
– Se esce, la disegno, – disse sottovoce.
– Sta’ attento, – dissi io, – può essere pericoloso.
In quel momento, la carpa saltò.
Come ben sapete, la carpa Nan Ch’ai è di una bellezza superiore alle parole. Perciò posso solo ripetere: saltò.
Tornammo in silenzio. Cominciava a fare un po’ fresco.
– L’hai disegnata? – chiesi.
– Forse, – disse Paz.
– Attento. Chi la disegna anche una volta sola…
E vedemmo le prime luci di Alcatraz: là ci attendevano amici sinceri, abiti asciutti e ceci bollenti.
Due anni dopo il torrente Resina restò secco per una terribile stagione di siccità. Rifeci lo stesso cammino che avevo fatto con Paz. Un filo d’acqua fangosa era tutto ciò che restava del fiume. La pozza dei Granchi Batteristi era una pozzanghera sporca, e le poche carpe erano nascoste sotto i sassi. Tutto era arido, screpolato. Un fiume. Un grande magico fiume. Con la sua acqua pulita, le sue rare creature, i terrori, le invenzioni, la poesia, le sorprese di ombra e di luce. Ecco cosa non c’era più.”
L’ho sempre sostenuto che il torrente Resina fosse importante, pensavo per il fatto che il Tevere sia quel grande fiume che è anche grazie a lui. Ma mi sbagliavo.
Poche cose rendono l’idea della natura umbra come la frase “dove gli uomini aspirano ancora ad essere liberi”. Grazie a Benni per averle pensate, a Paz per averlo ispirato e al torrente Resina che li ha visti andare a pesca insieme felici.

Abbazia di Montecorona

Felice come una (colazione di) Pasqua
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